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Embodiment, incarnazione.
Ogni giorno, decine di milioni di persone in tutto il mondo vive quotidianamente l’esperienza di riflettere la loro identità fisica in quella digitale. Nulla di veramente nuovo, lo abbiamo sempre fatto, abbiamo sempre trasferito nei media, dalla carta alla pittura, il proprio sè. E’ una propensione dell’umano sentire.
Ma senza costringerci ad andare alle fonti, rimaniamo ad oggi dove i nostri profili social, i nostri commenti, le nostre mail, tutto ciò che pubblichiamo in rete, contribuisce alal creazione di una “Personomia” ovvero di una identità molteplice e sfaccettata che per noi parla alle orecchie, agli occhi e lo desideriamo sempre potentemente, anche ai cuori della gente.

Sliding doors

La personomia dunque non è l’espressione della personalità, è piuttosto la costruzione di una forma identitaria editabile che muta a secondo l’ambito in cui si presenta. Muta ma è possibile intravvedere le tracce più o meno profonde o profondissime, del legame con la nostra identità.
Quello che abbiamo oggi, a differenza del passato è proprio la possibilità, anzi direi quasi la necessità di editarci, di elaborare come in uno stato liquido, uno continuo sliding doors tra le possibili e impossibilib versioni di noi .

La maschera svela, la maschera vela

Ma la personomia non è ancora un embodiment.
per quanto la nostra immagine venga ribadita, rilanciata esposta e moltiplicata all’infinito, questa rappresentazione non è ancora un corpo altro da noi, corpo necessario per aggiungere l’elemento performativo essenziale per dare vita, evolvere la personomia nella maschera che parla per noi, ma che ha anche una sua autonoma identità: La maschera di Pulcinella e l’attore che lo interpretano entrano in una convivenza inevitabile, senza per questo essere la stessa cosa.

Avatar

ma questo ancora, non è embodiment.
L’Attore e Pulcinella hanno un vincolo che è anche una salvaguardia: è l’interpretazione. C’è un ruolo, Pulcinella, in cul l’attore entra calzandone le vesti, e chi è bravo da alla maschera quello che riceve, in una vera e propria trasfigurazione poetica, che è l’altro modo che ho di intendere la performance.
L’embodiment presuppone però una convivenza ancora più intima, in quanto non si interpreta, ci si incarna in una forma del sè che ci rappresenta libera dai vincoli della genetica e dell’entropia universale, dai bisogni e dai lamenti del corpo fisico in qualcosa d’altro, quello che chiamiamo Avatar.

Avakindness

Essere Avatar non è un processo inevitabile, sopratutto non è facile. Prevede una predisposizione, la capacità di mettere in gioco, letteralmente, la propria personalità più vera. Ci vuole tempo e dedizione. Se c’è una cosa che per esperienza posso smentire, è che nell’embodiment non avviene una dissonanza nevrotica. Non nego che vi siano casi, ovviamente, una sorta di bipolarismo digitale, ma sono rari, e a chi è dotato di esperienza, sono evidenti come il sole, ed evitabili.
Il più delle volte, l’embodiment è un attivatore di attitudini, un elemento scatenante della creatività individuale.
Questa propensione la chiamiamo Avakindness.

La Via all’Avakindness

Ora per godere di esperienze virtuali, immersive, performative ed esperienziali, l’Avakindness non è necessaria.
La più parte degli embodiment, a causa di vincoli tecnologici e di rappresentazione del corpo che hanno le piattaforme, danno come risultati più che Avatar, direi dei deambulatori adatti in effetti a soddisfare i bisogni temporanei di dare una forma vaga, al più iconica, al 90% degli utilizzatori occasionali di identità virtuali. E per gli intenti e le necessità didattiche di cui oggi abbiamo bisogno, vanno al momento benissimo.
Vincoli ancor più grandi sono i vincoli culturali, la diffidenza verso l’innovazione in generale, e in particolare a tutto quello che riguarda il tabernacolo del corpo e il senso che ne diamo, soprattutto qui in occidente.
Ma chi coglie l’opportunità, l’avakindness produce stati di alterazione emotiva straordinariamente fecondi, che permettono non solo a chi ha l’arte fra le sue doti, e qui raggiunge l’eccellenza, ma che ci aiuta a vedere dentro di noi da prospettive inusitate. l’avakindness è a mio parere una vera disciplina che andrebbe studiata e codificata.
E mi ha personalmente migliorato. Provare per credere.

Di tutti questi e di altri temi abbiamo parlato martedì scorso a “Metaverso Sociale. Neuromarketing, Avatar e Corpi del III Millennio”, un convegno virtuale che abbiamo organizzato nella Extended Hall di Dario Buratti (alias Colpo Wexler) con il Dipartimento Metaverso AINEM e il Research Center of Neuromarketing IULM, con gli interventi dei Digitalguys Dario Buratti, Fabrizio Bellavista, Stefano Lazzari, Francesca Rainieri, unitamente a Sebastiano Accardi, per la presentazione della Ricerca di Neuromarketing targata IULM University.

Immagini di Dario Buratti AI co-create

NOTA
Queste riflessioni originano dalla mia diretta esperienza da Avatar sulla Via dell’Avakindess. Parlano della carne, di mani, piedi, cuore e mente di una avanguardia evolutasi nel metaverso e che difficilmente si rivela.

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