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Una riflessione sugli aspetti corporei e incarnati (embodied) dei processi cognitivi e mentali che si è avuta in diverse discipline. 

Di Francesca Rainieri, Psicologa Clinica

Il termine “embodiment” nasce in filosofia e in psicologia, ma la sua genesi è talmente complessa che risulta difficile individuare con precisione chi ne abbia parlato per la prima volta, in senso moderno. Sappiamo che i primi a renderlo popolare in psicologia cognitiva furono George Lakoff e Mark Johnson nel loro libro “Metaphors We Live By” del 1980. Infatti, essi hanno utilizzato il concetto di embodiment per sostenere che le metafore siano radicate nelle esperienze corporee degli individui. Per Lakoff e Johnson (1999) l’ipotesi dell’embodiment implica che siano le nostre peculiari strutture percettive (i sensi) a plasmare le strutture concettuali e linguistiche. A sostegno di questa tesi citano ricerche riguardo gli effetti dell’embodiment sull’immaginazione, sui gesti, sulle lingue dei segni ecc.

Secondo i due autori, una filosofia “situata” vuole mostrare come le leggi del pensiero siano metaforiche e non logiche; la verità consisterebbe in una costruzione metaforica, non in un attributo della realtà oggettiva. Ciò significa che la verità non fonda le sue basi sull’ontologia proveniente da scienze fisiche o dalla religione, ma è quasi sicuro che essa proceda in base a metafore tratte dalla nostra esperienza corporea. L’embodiment è un concetto fondamentale all’interno della teoria della mente e fa riferimento alla nostra esperienza soggettiva di avere un corpo. La tecnologia moderna ha dato l’opportunità di moltiplicare la propria identità e con questo ha dato via a una serie di “incarnazioni” che trovano riscontro, per esempio, nella figura dell’avatar all’interno dei metaversi. Quest’ultima esperienza, raffrontata con il concetto che esprimono Lakoff e Johnson, indica una modificazione della percezione dell’embodiment. Ciò solleva importanti domande sulla natura del termine stesso e sulle conseguenze della rappresentazione digitale del nostro io fisico.

Riprendendo la terminologia di Lakoff e Johnson, Paolo Costa suggerisce che il metaverso potrebbe essere definito come una “metafora strutturata”, ovvero un concetto strutturato nei termini di un altro concetto. Il metaverso permette e incoraggia le persone a scegliere e incarnare metafore significative all’interno delle quali vivere, sia in modo temporaneo sia permanente. Il metaverso, quindi, si può definire come una metafora e allo stesso tempo un luogo finito: così la propria identità in un ambiente (che sia reale o virtuale) significa che l’individuo può percepire sia sè stesso (e gli altri), sia le macchine, non solo come “situati” in quello spazio esterno, ma come “immersi” in una rete socio-culturale di significati connessa attraverso interazioni.

Una nota sul termine AVATĀRA: nell’induismo è consignificante con la discesa di una divinità sulla Terra avente lo scopo di ristabilire o tutelare il Dharma, cioè la legge universale. Sono oggetto di fede gli avatar del dio Viṣṇu, riconosciuti per lo più in numero di dieci e rivolti tutti al bene del mondo e delle creature. A differenza della «incarnazione» cristiana, in ogni suo avatar (letteralmente «discesa») Viṣṇu non assume realmente natura umana o animale e le sue prerogative divine non sono intaccate.

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